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Il maestro del thriller Antonio G. D’Errico torna in libreria con “Morte a Milano. Ernest”, noir mozzafiato per gli amanti della suspence

Antonio G. D’Errico, scrittore poliedrico, drammaturgo, poeta, biografo di cantanti, musicisti e politici, nato a Monteverde, paese confinante con Melfi, già ospite di queste pagine con il best seller di poesie “Amori trovati per strada” è tornato in libreria con un noir a tinte forti intitolato “Morte a Milano. Ernest” (Macchione editore, Varese, ottobre 2018, Euro 18). Il testo, di 230 pagine, è suddiviso in 34 capitoli, corrispondenti ad altrettanti episodi interlacciati da un fil rouge che evita la dispersione narrativa, mantenendo sempre desta l’attenzione del lettore. Osservando l’eloquente copertina, il primo pensiero va, inevitabilmente, ad un titolo simile, “Morte a Venezia” di Thomas Mann, ma già sfogliando le prime pagine ci si accorge che qui non c è niente di romantico e di platonico: nella fattispecie si va ben oltre l’amore proibito ma etereo tra il barone Von Aschenbach ed il tredicenne Tadzio, raccontato dal grande scrittore tedesco. Ottimamente prefazionato da Michela Zanarella, il romanzo è un thriller che non ammette distrazioni nella lettura. Il plot narrativo è ricco di intrecci che, rappresentati con un linguaggio concinno, attraverso moduli espressivi indicativi di una conoscenza epistemologica delle categorie sociali utilizzate nella fiction narrativa, concorrono a formare una cifra stilistica elevata e genuinamente originale.La trama si esplica attraverso la storia di Dino Lenza, un traduttore di libri dal francese che mal sopporta l’arroganza e le imposizioni dell’insistente editore, il cav. Melchiorre, non condividendo neppure la trama originaria tracciata dallo scrittore Jean Baptiste Monnais, alla quale sostituisce in itinere una sua storia, con suoi personaggi ai quali mette in bocca le parole che vuole lui, attraverso dialoghi serrati che danno vita ed anima ai locutori. Dino, il cui cognome, Lenza, si presterà al dileggio del cav. Melchiorre, ha concepito il suo alter ego chiamandolo Ernest. E proprio Ernest, un giovane rimasto orfano di madre, mandato a vivere con gli zii, con il suo impulso irrefrenabile di uccidere potenziali stupratori, sarà il protagonista principale della narrazione. Vendetta, sospetto e gelosia sono il leit-motiv del romanzo: una sorta di matrioska letteraria di cui fanno parte, in senso decrescente, D’Errico, Dino Lenza ed Ernest, attori che si alternano nel tenere viva la suspence offrendo risvolti sorprendenti. La psicologia, disciplina a cui il prof. D’Errico, docente di materie scientifiche in una scuola superiore lombarda, è affezionato, attraverso il polisindeto domina a tutto campo, rievocando “La coscienza di Zeno”, con sedute analitiche che, nella fattispecie, si rivelano fallimentari: “(…) Ha subito violenza lei? Può immaginare che cosa si prova quando si viene afferrati da artigli che non ti lasciano scampo? Riesce a supporre l’effetto che procura il corpo di una bestia che ti assalta e ti azzanna e ti prende la vita in ogni sua parte? Sa quale danno procura quella violenza in chi è costretto a subirla impotente? Io ho subito quell’affronto e quella morte, e ne posso parlare! Lei no! A lei non è concesso nemmeno di immaginare!” (pagg. 91-97).Dino, vittima di un abuso sessuale da parte dell’uomo che viveva con sua zia, è costantemente ossessionato dal ricordo di quell’oltraggio subito durante l’infanzia. Cosicché, tutti i soggetti maschi che incontra, ai suoi occhi sono sillogisticamente rei di stupro, quindi da punire con la morte violenta, previa somministrazione altrettanto violenta di sedativo, per rendere indifese le vittime predestinate. Insomma, il binomio Dino-Ernest fa parte di una schiera di pedine (zia Elsa, il cav. Melchiorre, Giampiero, il commissario Laurenti, Enrico, Luigino et al.) che si muovono sulla scacchiera del crimine abilmente manovrati dal deus ex machina, Antonio G. D’Errico, che dalla sala di regia detta i tempi e le mosse di ogni singola azione, sempre sul filo del pathos, senza allentare mai la tensione dell’intreccio tra invenzione, verosimiglianza e finzione. “Morte a Milano. Ernest” è un capolavoro che sembra strizzare l’occhio al popolo di Face book, impiegando nei dialoghi la particolare punteggiatura della … reticenza, come ad esempio nella “scena” a pag. 114, in cui il negoziante di ferramenta cerca di convincere Dino all’acquisto di alcuni particolari coltelli, non certo da cucina: “Tenga questo, c’è il mio indirizzo di casa e il numero di telefono … Mi chiami all’occorrenza, quando vuole, di giorno di notte … se dovesse avere problemi, mi chiami …(…)”. Il D’Errico, poi, come a pag. 112, quasi a voler creare un ponte antinomico tra passato e presente, utilizza sempre la forma pronominale arcaica “glie le” anziché “gliele”, ma non ha bisogno di Instagram per mandare foto al lettore: il suo linguaggio icastico basta da solo per connotare fisiognomicamente i suoi personaggi, che si muovono secondo sincronismi ben regolati, con ruoli specifici che nessuno può invadere. I colpi di scena non mancano ed il finale riserva una sorpresa che il recensore non può svelare. Ciò che si può dire subito, invece, è che questo romanzo, che si potrebbe definire olistico e sociologico, consacra Antonio G. D’Errico, nome noto nel panorama letterario italiano, tra i maestri del genere noir, avendo egli saputo decodificare magistralmente la se(x)colarizzata società “liquida” senza etica, denunciandone a modo suo i mali, come la violenza sulle donne e sui minori, che l’affliggono. Sì, non c’è dubbio, “Morte a Milano. Ernest” è un libro strenna che non asseconda, ma stigmatizza la moda corrente dell’effimero, dell’inutile e dell’aberrante!

Prof. Domenico Calderone

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