“I buoni pasto potrebbero non essere più”buoni”: è lo slogan della campagna promossa da Fipe-Confcommercio, FidaConfcommercio insieme ad altre associazioni di categoria. Il sistema dei buoni pasto è al collasso e se non ci sarà un’inversione di rotta immediata, quasi tre milioni di dipendenti pubblici e privati potrebbero vedersi negata la possibilità di pagare il pranzo o la spesa con i ticket. Tra i 50mila e i 55mila lavoratori occupati in Basilicata – evidenzia Confcommercio – pranzano fuori casa in mensa, al bar, al ristorante o direttamente sul luogo di lavoro, con il pasto comprato o portato da casa. Il pranzo fuori casa assume, dunque, un ruolo sociale di particolare rilevanza non soltanto per il numero delle persone coinvolte ma anche per gli effetti che da esso ne derivano in termini di cambiamento degli stili alimentari. E la quota che pranza in casa continua a scendere: in dieci anni è passata dal 58,9% al 54,2%. Le donne lavoratrici che pranzano ogni giorno fuori casa sono circa il 30% del totale. Il problema sollevato dagli esercenti – in gran parte punti di ristoro – che accettano il buono pasto è che su un buono con valore nominale di 8 euro, il gestore di un esercizio convenzionato ne incassa 6,18 (iva esclusa), quasi due euro in meno e, molto spesso, con il ritardo di qualche mese. Su un valore, ad esempio, di 30 mila euro, il costo – tra commissione e oneri finanziari – può arrivare alla “pazzesca” cifra di oltre 9 mila euro (30% del totale). Una soprattassa non più sostenibile dalle decine di migliaia di esercizi nei quali, ogni giorno, i lavoratori effettuano la propria pausa pranzo.
Nel 2019 si stima che fossero in circolazione oltre 500 milioni di buoni pasto (circa 750mila solo in Basilicata) per due terzi acquistati da committenti privati. Il volume d’affari 2019 è stimato in 3,2 miliardi di euro mentre il valore medio di un buono pasto è attualmente di 6,20 euro, in crescita per effetto dell’aumento degli sgravi fiscali sull’elettronico, riconosciuti dall’ultima legge di bilancio (l. n. 160/2019). E’ sul rimborso agli esercizi convenzionati che il meccanismo rischia di incepparsi, anzi si è già inceppato. Per una sorta di effetto domino, lo sconto che il datore di lavoro richiede (e ottiene) al momento dell’affidamento del servizio a una società di emissione, viene ineluttabilmente riversato sugli esercizi che concretamente erogano il servizio sostitutivo di mensa, presso i quali i lavoratori consumano il pasto o acquistano i prodotti alimentari. Questo meccanismo è addirittura previsto da un’apposita norma del codice degli appalti, il cui effetto determina che la commissione che l’emettitore fa pagare all’esercizio convenzionato sotto forma di sconto incondizionato non possa essere inferiore allo sconto effettuato in sede di gara alla stazione appaltante. Eccolo, in sintesi, il meccanismo. Il datore di lavoro acquista per i suoi dipendenti buoni dal valore di 8,00 euro al prezzo di 6,40 (sconto 20%, iva esclusa). I lavoratori li spendono presso la rete degli esercizi convenzionati. L’esercizio riceve dall’emettitore, per ciascun buono, 5,82 euro (sconto 20%, iva esclusa). Se proiettassimo lo sconto su un valore esemplificativo di 30 mila euro, ci accorgeremmo che all’esercente il giochetto costa 8.184 euro, cui aggiungere altri 2 mila euro per oneri di gestione e finanziari dovuti al ritardato pagamento. Insomma sul buono pasto c’è una tassa supplementare di oltre il 30%. Non è difficile capire, allora, perché il sistema è in tilt.
Per Confcommercio, la riforma del sistema dei buoni pasto deve fondarsi su quattro pilastri: 1. Salvaguardia del valore nominale lungo tutta la filiera e, quindi, riforma delle gare Consip. Il buono pasto è un servizio “speciale”, non una merce qualunque. Un buono pasto da 5 euro deve valere 5 euro fino alla chiusura del ciclo, che si realizza con il rimborso dell’esercizio convenzionato da parte dell’emettitore. 2. Pos unico. Stop alla moltiplicazione dei Pos (e dei relativi costi) con l’introduzione di un Pos unico e di un unico sistema di codifica dei buoni pasto. 3. Rating di affidabilità. Dal momento che le società emettitrici operano in un mercato da oltre 3 miliardi di euro all’anno, risulta indispensabile assicurare che vi operino soggetti che diano adeguate garanzie di affidabilità, garantendo idonei requisiti patrimoniali e di conto economico. 4. Contratti chiari e trasparenti .Al fine di assicurare una maggior chiarezza ed equità degli oneri contrattuali, sarebbe opportuno che il Ministero competente adottasse uno schema tipo di “contratto di convenzionamento” .
L’apertura arrivata da Consip, con l’annuncio di imminenti audizioni sul tema dei buoni pasto, rappresenta un primo passo che va nella giusta direzione. Ma non basta”: cosi’ Aldo Cursano, Vice Presidente Vicario di Fipe, la Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi, in merito alla vicenda dei buoni pasto. “E’ necessario – aggiunge – che arrivi al pù’ presto una risposta concreta da parte del governo. E’ indispensabile che il valore nominale dei buoni pasto venga garantito lungo tutta la filiera ed e’ essenziale che i vari oneri e adempimenti burocratici e non solo, vengano ridotti al minimo. A cominciare dall’adozione di un pos unico da parte di tutti gli emettitori. Il nostro obiettivo e’ quello di rendere questo servizio realmente sostenibile per tutti i soggetti coinvolti”.