“Cose di casa nostra. San Fele nei racconti di alcuni paesani” di Pietro Fasanella. Memoires di un ex preside di campagna
Redazione
Il libro in attesa di sottoporsi al nostro giudizio critico, ci è giunto da San Fele. Che sorpresa! Il mittente è Pietro Fasanella, ex insegnante elementare, poi Direttore didattico e infine Dirigente scolastico presso l’Istituto Comprensivo di San Fele, ora in pensione. Trattandosi di una persona a noi direttamente nota, la nostra curiosità è massima. Quindi, andiamo subito a verificare se il testo pubblicato è pari alla fama del suo autore. Il libro, che reca il titolo “Cose di Casa nostra. San Fele nei racconti di alcuni paesani” (AGOM edizioni, Rionero in Vulture, dic.2020) è fresco di stampa e ha per protagonisti dei personaggi appartenenti ai ceti sociali più poveri e svantaggiati della società contadina lucana che rappresentano “una realtà di sacrifici e miseria, ossia quel mondo di silenziosi ed umili eroi ormai scomparso”. Il testo, di 113 pagine, è articolato in 33 racconti brevi in forma di aneddoti, intervallati da belle foto di reperti della civiltà contadina, esposti al “Museo diffuso” di San Fele, dopo un paziente lavoro di raccolta svolto in situ, nel corso degli anni, da Fernanda Ruggiero. Le “Cose di Casa nostra” sono “esternazioni” pubblicate in sordina, timidamente e in modo discreto e riservato. Infatti, l’autore, nella premessa (pag.7) ci dice quasi sussurrando: << Avevo cominciato, nelle uggiose giornate invernali quando la nebbia fitta si può tagliare con il coltello e i pensieri si impigriscono, a prendere appunti su qualche fatto del mio paese. Ora alla bella età di 84 anni (…) ho pensato di darli alla stampa, dopo averli messi in ordine durante il periodo di isolamento provocato dal coronavirus.>>
L’incipit annovera alcune ”avvertenze” ad adiuvandum su alcuni aspetti salienti della grammatica del dialetto sanfelese, spiegando in parole semplici che: <<La vocale “a” è articolo determinativo: a massariё, a casё; è anche preposizione semplice: vachё a Piernё, ma è anche pronome personale: a tenghё ijё, la tengo io. La vocale “e” con due punti, “ё”, sia nel corpo della parola, che alla fine è semimuta: pёsaturё, (psatur), panё, granё etc. Le vocali “i” ed”u” sono articoli determinativi maschili, singolari e plurali: u canё, i canё, u dentё, i dientё. La vocale “o” è anche preposizione articolata: vachё ò paisё, vado al paese. (…) La lettera”s” con una v sovrascritta “ṧ” si pronuncia “sc” (la sc di scimmia) per cui le parole pagnotta, gridare, spaventarsi, scheggia, schiaffeggiare, solamente etc. si scrivono: ṧcanate, ṧcamà, ṧcandà, ṧcarde, ṧcaffià, ṧchitte etc.>>(pag. 5). Per tutte le informazioni tecniche riguardanti la morfosintassi, la fonematica ed i segni diacritici, tributario è stato l’ottimo “Dizionario dialettale di San Fele” del compianto prof. Alfonso Ilario Luciano, che abbiamo avuto l’onore di conoscere e recensire in passato. Le storie raccontate, invece, sono <<piccole cose di casa nostra che si riferiscono ad una realtà temporale che va dagli anni ’20-’30 agli anni ’80-’90 del secolo scorso.>> Sì, un’epoca in cui: <<(…) la vita, per quasi tutta la popolazione era un sacrificio, un peso, come dice Manzoni, e solo per alcuni era una festa.>>(pag.7)
Il registro linguistico usato nella narrazione, ispirato ad Andrea Camilleri, più volte evocato in alcuni moduli espressivi, parte dal livello medio per poi finire in crescendo, fino a toccare un livello alto, fatto di sofismi e citazioni colte, smentendo il suo stesso autore, laddove afferma testualmente: << Tali ricordi di vita vissuta, che servono a collegare il presente al passato e tenere vivo il valore del lavoro, sono raccontati con bonomia tutta sanfelese, senza ricorrere a citazioni culturali e dottrinarie che possono infastidire il lettore>>(pag. 8). Ma quale fastidio al lettore?! C’è solo da imparare! Capita raramente di trovarsi di fronte a scritti dialettali con breve commento etimologico dei termini e delle locuzioni in vernacolo impiegati. Paradigmatico è “U ciuccё de Suménё-L’asino di Sozomeno” (pag. 19), dove troviamo qualcosa di veramente pregnante. Parlando di Sumènё, il quale aveva avuto la sciagura della morte dell’asino, il narratore, vestendo i panni del sociolinguista scrive: <<In quel tempo per un povero Cristo la morte di un maiale o di un asino, per motivi facilmente comprensibili, era più grave di quella di una persona di famiglia.(…) La povera bestia aveva mangiato a crepapelle erba bagnata, si era come si dice nell’idioma sanfelese “ abburdatё”, saziata oltre misura, ed era ṧcattatё ncuorpё, era crepata.>> E, ricorrendo all’explanatio per argumenta exemplorum di dantesca memoria, spiega: << Difatti l’erba bagnata, mangiata oltremisura, provoca l’aumento del gas e il conseguente aumento di volume del ventre. In tal caso bisogna intervenire subito e con un coltello apposito “tréqquartё” bisogna praticare un’incisione nella pancia, incisione che facilita la fuoruscita del gas formatosi in eccesso. Altrimenti l’animale muore, come nel caso di Sozomeno.>> Il racconto continua attraverso una rapida incursione nel novero dei luoghi comuni, specificando:<<Dopo qualche riluttanza di Sumènё: Uagliù ijё nunnё vogliё sapé niendё, veditёvillё vujё, ijё so dё cuozzё, ragazzi, io non ne voglio sapere nulla, vedetevela voi, io sono di spalle, non ho visto nulla (…) La locuzione “u sandёfёlesё staiё dё cuozzё” (…) è tipica di questo paese, anche se ha visto tutto, fa finta di non aver visto nulla per non avere noie con la giustizia (…).>>
Questa breve raccolta di episodi di vita contadina testimonia l’amore per un passato, che in parte è ancora presente. E’ una realtà linguistica che sottende la volontà di non far perdere il gusto dell’aggettivo acconcio, della massima che dipinge e scolpisce, nel tentativo di sottrarre all’oblio il fascino del nostro patrimonio linguistico locale come espressione di vita vissuta nel bene e nel male. E pensare che il Preside Fasanella, in premessa (pag.7) si autoaccusava dicendo: << E’ probabile che in esso si potrà riscontrare qualche imprecisione o qualche svista. Me ne scuso con i lettori (…). I lettori si annoieranno, lo so, la colpa è solo mia, non l’ho fatto apposta! (…) Purtroppo, l’ho fatto! Mi si perdoni l’errore commesso!>> Usando lo stesso cliché, in dialetto lucano si direbbe: s’è mmnatё nnantё pё nun caré. I latini, invece, più forbitamente, avrebbero detto: excusatio non petita accusatio manifesta. Ma quali accuse e scuse?! Quale mea culpa?! “Cose di Casa nostra. San Fele nei racconti di alcuni paesani”, per giudizio ex post, è un testo smart contro il bullismo e la maleducazione che, nel mondo degli “odiatori professionali” della società digitale, meriterebbe di essere adottato nella didattica scolastica, come breve trattato di Pedagogia sociale!