Per il secondo anno consecutivo la Dia nelle sue Relazioni semestrali riserva alla criminalità lucana un capitolo a parte. Qualcosa di impensabile fino a qualche anno fa. Qualcosa di surreale in quegli anni (non troppo lontani a dire il vero) in cui pezzi autorevoli di Istituzioni lucane negavano una presenza mafiosa e condannavano invece chi parlandone sporcava l’immagine della presunta “isola felice”. Oggi invece ci scopriamo in una regione che dal punto di vista dell’allarme che suscita il fenomeno, come dice il Procuratore Francesco Curcio, si colloca “subito dopo quelli tradizionalmente afflitti dalla presenza delle mafie storiche”. Una regione sempre più vulnerabile a causa delle difficoltà economiche nelle quali versano famiglie e imprese e nello stesso tempo per l’arrivo di cospicui fondi pubblici. Una regione nella quale i clan storici come in altri territori di tradizionale presenza mafiosa nel gestire gli affari di sempre si sono comunque rigenerati, evoluti, spesso trasformati in imprese e infiltrandosi sempre più nelle pubbliche amministrazioni. L’impressione che oggi abbiamo è che si stia materializzando quel fantasma che negli ultimi anni abbiamo visto aggirarsi sempre più nella nostra regione e che trasforma la comune criminalità in mafia: quando cioè gli affari della mala si incrociano, agevolano e condizionano dinamiche di favoritismo e di clientelismo per cui i diritti diventano favori e l’illegalità si trasforma in normale consuetudine sia nelle pratiche quotidiane che in certi circuiti istituzionali.
Ecco perché il nostro grido diventa allarme ancora di più rispetto agli anni addietro: perché quando si spara e divampano fuochi tutti lo vedono, quando l’illegalità diventa cultura in pochi se ne accorgono. Ed è questa la mafia. “Il pensiero mafioso entra come facendo una colonizzazione culturale, tanto che diventare mafioso fa parte della cultura, della strada che si deve fare”. Lo diceva Papa Francesco lo scorso mese di giugno in occasione del trentennale dell’istituzione della DIA. Oggi ci sembra questa la nuova sfida in Basilicata. Non vogliamo più chiederci che cosa sarebbe stato se negli anni addietro questo fenomeno non si fosse sottovalutato lasciando spesso sole le autorità giudiziarie, chiediamo solo che non si perda tempo nel comprendere la pericolosa deriva culturale della presenza mafiosa nella nostra regione. Ancora più pericolosa e subdola degli anni in cui si sparava, e dei fuochi che tuttavia ancora oggi continuano ad essere appiccati.
don Marcello Cozzi
Presidente Ce.St.Ri.M.