“Pensieri e riflessioni al tempo del Coronavirus” (Montag edizioni, 2024, Macerata, euro 17,00) è il nuovo romanzo di Danila Marchi, poetessa e scrittrice ligure molto conosciuta in Basilicata, grazie alle sue numerose partecipazioni al rinomato “Concorso Artistico-letterario Engel von Bergeiche” (che si tiene annualmente, ad agosto, a Ruvo del Monte e dintorni; iscrizioni già aperte sul
Infatti, da insegnante e assistente sociale, l’autrice sa trattare bene la scrittura, che spesso intercala con la poesia, forse in maniera troppo descrittiva, ma certamente icastica al momento e al punto giusti, sapendo dosare gli eventuali arzigogoli letterari e i sofismi, echi delle letture giovanili di Nabukov, Lawrence et. al., in modo tale da non inficiare la chiarezza dei suoi “messaggi” al lettore.
In questo romanzo, che si snoda tra i ricordi del passato non remoto e le riflessioni del presente, ricco di similitudini, litoti, metafore ad adiuvandum, che arricchiscono il lessico familiare e la semantica, i personaggi chiave: Elia, Lia, Luca e Dario sono facilmente identificabili nel contesto socioeconomico e professionale più stretto, tanto è il trasporto emotivo dell’io narrante, accompagnato da moduli espressivi inequivocabili, ad personam, per tratteggiare il loro identikit psicofisico, etico e morale. Le accuse ad Elia, il capofamiglia separato, Leit-motiv dell’intera vicenda, campeggiano a tutto spiano, come un mantra, per denunciare gli “effetti collaterali” non solo della pandemia ma anche e soprattutto di un machismo colpevolmente tollerato ed alimentato dalle “borghesie vecchie” e nuove di una società “liquida” secolarizzata, senza più valori, ostaggio delle mode importate, appiattita sull’apparenza e sull’edonismo ad ogni costo.
Grande amante della filosofia e della psicologia, Danila Marchi, quasi a suggellare le sue preferenze, non manca di evocare Schopenhauer e Spinoza, sfoggiandone citazioni colte, come pezze d’appoggio alle sue tesi tutt’altro che peregrine, inducenti alla riflessione. “Pensieri e riflessioni al tempo del coronavirus” è qualcosa che va oltre il romanzo: è un diario alla Robinson Crusoe, similmente invocante la “Provvidenza”, ma decontestualizzato con tratti da rapporto di polizia, tanta è la precisione narrativa, minuziosa nei minimi particolari. Gli aneddoti raccontati hanno una valenza storica del passato che non è ancora passato: è drammaticamente contemporaneo. Si tratta, dunque, di un romanzo liberamente tratto dalla realtà, dove non c’è posto per la mitopoiesi e gli infingimenti. Il continuum narrativo si sostanzia in frequenti flashback aneddotici ricadenti nella società post-moderna, e si snoda attraverso il ritmo dell’accumulazione, con profluvi di parole sullo stile del “flusso” di James Joyce, con rapide incursioni nel dialetto ligure, quasi a voler impedire al lettore qualsiasi distrazione, o calo di attenzione. Intriso di J’accuse alle istituzioni inadempienti, che non hanno saputo valutare la sua situazione familiare, nel momento della crisi coniugale, culminata nella separazione e nella conseguente malattia di uno dei figli, Lia, la protagonista principale, non manca di recitare spesso anche qualche sincero mea culpa, per certi episodi di manifesta timidezza reticente, dettati, secondo lei, dall’imprinting ricevuto in eredità biologica da suo padre.
L’auspicio è che quanto raccontato, con cognizione di causa, dall’autrice, in modo “romanzesco”, suscitando empatia e commozione, non abbia a verificarsi ex novo. Al solo pensiero di un’eventuale recrudescenza della pandemia da coronavirus, visto in che situazione hanno ridotto la Sanità pubblica le spinte privatistiche, ci tremano le vene e i polsi. Ringraziando Dante per il prestito, a questo punto, gli scongiuri sono obbligatori, perché lo status quo ex post potrebbe essere peggiore di quello ex ante, ossia, come dicevano gli antichi: non c’è mai limite al peggio!
Prof. Domenico Calderone