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Vita migrante
Danila Marchi è una poetessa-scrittrice ligure, veterana dei concorsi/premi letterari, conosciuta al pubblico lucano, grazie alle sue abituali partecipazioni da protagonista al rinomato “Concorso artistico-letterario internazionale Engel von Bergeiche”, dedicato al poeta-scrittore lucano Angelo Calderone (nativo di Ruvo del Monte, morto a Bologna nel 2011), che si svolge annualmente in agosto, in modo itinerante, tra il luogo che ha dato i natali all’intestatario del Concorso eponimo e al Venerabile Domenico Blasucci, ed i paesi del Vulture-Melfese.
Con “Vita migrante” (G. C. L. Edizioni, 2024, Taranto, euro 16), raccolta di ben 93 poesie, distribuite in 148 pagine, la Marchi si conferma poetessa molto prolifica che, con la sua icasticità, sa illustrare in modo mirabile la varietà dei sentimenti umani, senza infingimenti, né arzigogoli letterari. In questo è, indubbiamente, facilitata dal suo status socioculturale di insegnante e assistente sociale: attività professionali che le forniscono spunti ad abundantiam per comporre le sue poesie, more solito miste di Romanticismo, Verismo, Ermetismo, Futurismo etc. che le consentono di percorrere itinerari poetici già appartenuti a grandissimi predecessori illustri del passato, tra cui Deledda, Pascoli, Leopardi, Ungaretti, et al. Tuttavia, va detto che le sue composizioni sono, comunque, influenzate dai problemi reali legati alla società “liquida” dell’epoca contemporanea e da esperienze personali, familiari, sociali che rendono la sua poetica accattivante, intrigante e ricca di pathos. Nella fattispecie di “Vita migrante” siamo di fronte a liriche tirate fuori dai cassetti della memoria ante Covid-19, scritte al ritmo del “flusso” sul modello joyciano, che non danno tregua al lettore, quasi come se i versi fossero fotogrammi in sequenza che non si possono fermare, per non inficiare il deep meaning del “film”, ossia il significato profondo nascosto dietro ogni verso, talvolta rimato, ma più spesso orbitante nella versificazione libera. Come dice Rosy Mara Roccon nella sua acuta prefazione: “(…) I versi di Danila Marchi delineano la figura di una donna e la sua penetrazione nel cuore oscuro dell’esistenza, un viaggio interiore che esplora l’amore senza confini geografici, spaziando liberamente tra sensazioni ed emozioni che si dissolvono nel male di vivere”.
Più semplicemente si potrebbe dire che la poetica sofisticata di Danila Marchi, per la ricchezza lessicale delle interconnessioni linguistiche e semantiche, in certe fasi, si potrebbe definire “poesia in prosa”. Infatti, chi segue da anni questa poetessa, molto avvezza alla contaminatio, sa che anche tutti i suoi romanzi contengono sempre delle poesie tematiche, incastonate abilmente nel corpus narrativo, a mo’ di suggello: un “marchio di fabbrica” dell’autrice, la quale fa molto ricorso alla Filosofia, specie di Schopenhauer, la sua guida privilegiata nell’affrontare le tematiche esistenziali della società tecnologica contemporanea, sempre più disumanizzante. In ultima analisi, Danila Marchi, vera stacanovista del panorama letterario italiano, fresca finalista, con questa silloge poetica, alla 4^ edizione del “Torneo dei Poeti, 2024” di Taranto, si conferma e non smentisce le sue indubbie, poliedriche qualità artistiche, dedite sempre alla ricerca e all’inseguimento dell’amore ideale: quello che lei, illudendosi, scrive con la “A” iniziale maiuscola, senza, però, a quanto pare, mai raggiungerlo. Perché, sic et simpliciter, è un miraggio!
Prof. Domenico Calderone