“10 agosto1861. I briganti a Ruvo del Monte”: un testo di Massimiliano Mattei (con prefazione altisonante dell’ex ministro Luigi Mazzella), che getta nuova luce sul brigantaggio post-unitario lucano

L’autore del libro in esame è Massimiliano Mattei, romano, laureando magistrale in “Storia moderna e contemporanea” presso l’Università La Sapienza di Roma. Il volumetto, la cui I edizione si fregiava della copertina del fumettista Matteo Guerra, ed era stato presentato a Ruvo del Monte, nel mese di aprile 2024, al cospetto della prof.ssa Lidia Piccioni (relatrice del Mattei all’esame di laurea triennale), è stato ripubblicato, in II edizione, dalla “Tipografia Aquila” in Roma, sempre nel 2024 (prezzo: 10 euro) e ripresentato, nell’estate scorsa, nel borgo bradanico (paese dove sono piantate le radici della madre dell’autore). Il prezioso documento, di 131 pagine, si articola in: una prefazione (pagg. 9-14); una premessa (pagg. 15-18); 3 capitoli (pagg. 19-122); una ricca bibliografia (pagg. 123-126); un elenco di fonti a stampa (pagg. 127-128) e un dettagliato novero di fonti d’archivio (pagg. 129-131).

Come recita la quarta di copertina: “Il mattino del 10 agosto 1861 il paese lucano di Ruvo del Monte venne messo a ferro e fuoco da una banda di briganti guidata dal ”generale” Carmine Crocco. Nel lasso di poche ore si susseguirono una serie di eventi tragici e delittuosi che segnarono profondamente ed in maniera indelebile la vita della comunità locale del tempo. Le pagine di questa ricerca storica vogliono offrire al lettore una ricostruzione minuziosa ed analitica degli accadimenti di quel giorno attraverso l’utilizzo di documenti d’archivio”. Aggiungendo subito nella premessa: “Il fenomeno del brigantaggio post-unitario raggiunge il suo punto di massima ferocia e brutalità tra la primavera e l’autunno del 1861 interessando particolarmente la Basilicata, la Capitanata (in Puglia, ndr) il Molise, gli Abruzzi (ora Abruzzo, ndr) e la Terra di lavoro”. L’esposizione dei fatti (cap.1) inizia analizzando la scaturigine del fenomeno chiamato brigantaggio (dal verbo brigare), tirando in ballo Garibaldi e la sua spedizione dei Mille “vista in maniera favorevole dai contadini e braccianti che vedevano in essa la possibile realizzazione di antiche speranze (…). Il brigantaggio meridionale post-unitario esplose, dunque, sostanzialmente, per la riorganizzazione generale che il neonato Stato italiano stava attivando nel Mezzogiorno (…) che comportava l’introduzione di norme poco gradite alla popolazione (…). Le nuove leggi incorporavano obblighi e divieti a carico delle fasce più deboli e povere della popolazione (pag. 24), come il divieto di raccogliere la legna e di pascolare le greggi negli usi civici, con l’aggiunta della famigerata tassa sul macinato”. Il Mattei, poi sottolinea: “Dopo l’unità d’Italia le popolazioni meridionali del Regno delle Due Sicilie furono quelle che soffrirono più di tutte, specialmente dal punto di vista socio-economico (pag. 25), motivi alla base del rafforzamento di mafia e camorra. (…) Ulteriore concausa del fenomeno del brigantaggio, fu il provvedimento con cui si stabilì la leva obbligatoria di cinque anni per la fanteria e sei anni per il reparto di artiglieria e cavalleria. Il brigantaggio, che prese l’avvio dalle zone impervie dell’Irpinia, ben presto si diffuse a macchia d’olio in tutto il Sud connotandolo come una grande polveriera a cui il governo piemontese rispose con veemenza e fermezza” (pag. 28). Su questo punto, Luigi Mazzella (ex Ministro, ex Vicepresidente della Corte costituzionale e tanto altro ancora), rifacendosi ad un libro di Piero Pastorelli, nella sua dotta prefazione (pag. 9), parla di coinvolgimento della “Massoneria inglese e degli agenti segreti dei Servizi d’Intelligence di Sua Maestà britannica”, ricordandoci l’appartenenza alla Massoneria dei tre protagonisti, a vario titolo, dell’Unità d’Italia: Cavour, Mazzini e Garibaldi, per cui: <<Il viaggio verso la Sicilia, lo sbarco a Marsala, il passaggio dall’isola sulla terra ferma, furono eventi  favoriti dalla protezione accordata dalla flotta britannica (…) non per ragioni sentimentali, ma per ben più solidi motivi strategici e cioè l’ostilità sia all’egemonia militare austriaca sia alla tradizionale amicizia coltivata dal Regno delle Due Sicilie con la Russia zarista>>.

Il giovane storico, poi, non trascura di indicare le figure di spicco dei briganti attivi nel Vulture, facendo anche una minuziosa biografia del capo, Carmine Crocco e dei suoi sottoposti: Nicola Summa (detto Ninco Nanco); Giuseppe Caruso; Giovanni Coppa; Teodoro Gioseffi (pag. 31). Ai quali vanno aggiunte le brigantesse di Ruvo del Monte: Maria Giovanna Tito; Elisabetta Blasucci; Maria Nicola Suozzi (pag. 43).  Il 2° ed il 3° capitolo della ricostruzione sono dedicati interamente al “Massacro di Ruvo del Monte del 10 agosto 1861”, prendendo spunto dalla grande lapide scoperta, grazie ai fondi FESR 207/2013, il 10 agosto 2012, sul muro di un’abitazione privata in Piazza Olmo del paese, oggetto da anni di contestazione sul numero reale delle persone uccise dalla banda di Crocco, nell’episodio narrato. La lastra marmorea, infatti, riporta 17 nominativi, ma dalle diverse fonti citate dal dr. Mattei emergono divergenze, addirittura, in un range da 5 a 15 (sic!). Una discrasia dovuta a variazioni onomastiche e trascrizioni sbagliate degli uffici anagrafici dell’epoca: ad es. un “Patrissi” che diventa “Patrizzi” o anche “Patruzzi”. L’assonanza, a questo riguardo,  sembra aver tradito anche Mattei, a meno che, la sua, non sia una “trascrizione diplomatica”,  visto che nel piè di pagina N.196 (pag. 97), per evidente scambio di raddoppiamento fono-sintattico, troviamo “Rocco Blassuci”, ripetuto nel piè di pagina N.198 (pag. 98) anziché, più correttamente, “Rocco Blasucci”, tipico cognome ruvese ad alta frequenza, al contrario dei cognomi Tucciariello (Giovanni) e Traficante (Alfonso) di chiara matrice rionerese, “intrusi” che figurano arbitrariamente tra i caduti ruvesi di quel fatidico 10 agosto 1861. In ultima analisi, la qualità di questa speciale pubblicazione, in formato smart, ci autorizza a definire Massimiliano Mattei: uno stacanovista della ricerca storica, ovvero un “Indiana Jones degli archivi”.

Prof. Domenico Calderone

2 comments

  1. Dr. Giuseppe Giannini

    Un lavoro interessante, dal quale è possibile desumere come ogni avvenimento epocale sia co-pilotato per superiori interessi che oggi definiremo di geopolitica. Si fa la Storia a discapito degli sconfitti (che abbiano o meno ragioni da vendere). Il dramma del Brigantaggio è anche il dramma dell’Italia unita. In questo caso è stata tirata in ballo la Massoneria, la stessa presente nella rivoluzione francese, dietro i giacobini secondo le versioni reazionarie. Chissà se anche allora era deviata, e tra esoterismi e complottismi ante litteram, abbia effettivamente deciso le sorti degli Stati-nazione. I fatti raccontati nel libro del dr. Mattei sono vicende che ci riguardano direttamente, non solo per la vicinanza territoriale e sociale, ma soprattutto perchè conoscendo il passato possiamo cercare di capire chi siamo e dove siamo diretti.

  2. Prof.ssa Maria Muccia

    Parlare di fatti dove non si è presenti non sempre si è sicuri di poter essere certi di originarie verità, nel senso che si può dar ragione all’uno o all’altra fazione. Massimiliano Mattei, laureando in “Storia moderna e contemporanea”, ha il dovere di presentare un documento storico e perché non parlare del “brigantaggio a Ruvo del Monte”? Quello che non emerge chiaramente sono le sue tendenze di pensiero. Forse perché non ho letto il libro. Certamente la descrizione dei fatti è dettagliata, e conosciamo il brigantaggio come fenomeno violento e avverso alle nuove conquiste liberali, ma, se, per un attimo, ci mettessimo nei panni di quelle persone potremmo affermare che, forse era giusta la loro reazione. Nessuno può imporre all’altro qualcosa di diverso che l’altro non voglia. Anche i nuovi ideali, per quanto dalla scrivente abbracciati in pieno, in quel momento venivano imposti anche a coloro che non erano dello stesso parere. Ecco la reazione. Praticamente, non tutti erano a conoscenza o non avevano intenzione di convertirsi ai principi liberali. Si necessitava, come oggi avremmo detto, prima di una rieducazione del popolo, in modo da cambiare, automaticamente, la “politica di Stato” senza alcuna reazione, o, quantomeno, far sì che solo pochissimi rappresentassero ideali opposti e, quindi, non in grado di poter promuovere certe sommosse.
    Purtroppo, la storia ci insegna che questi ideali si alternano nel tempo, altrimenti, non ci sarebbero state tante guerre nel passato, anzi, ci sono ancora nel presente, anche se non a Ruvo del Monte e in Italia, e ci saranno sempre, fino a quando tutti i popoli non diventeranno “maturi” e “globali” negli ideali, pur rimanendo solo un sogno: anche questo ci insegna la storia. Alla fine di ogni guerra ci saranno sempre popoli oppressi e popoli oppressori e gli oppressi tenderanno, nel tempo, a rafforzarsi per riprendersi la rivincita. La globalizzazione esiste su carta e tra i paesi che sono riusciti a civilizzarsi un po’ di più, però, basti che si pensi ai primi problemi economici o politici di questi paesi, si è certi che questo grande concetto sparirà dalla circolazione e, forse, è già in atto qualcosa, speriamo si risolva. Il problema di fondo è che La storia la fanno in pochi, non i popoli. In tempi tranquilli, il popolo è al centro dell’attenzione di chi fa la storia, facendolo apparire importante, plagiandolo, perfino; in altri tempi il popolo è il mezzo per fare la guerra.

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