Non ha avuto il tempo di raggiungere la sua abitazione per compiere i comuni atti fisiologici della vita e per puro bisogno si è fermato con la sua autovettura all’ingresso del paese, di ritorno da una serata trascorsa con gli amici in un paese limitrofo, ignaro che una volante della pubblica sicurezza lo avesse intercettato e segnalato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza. Per un uomo di Calvello, l’aver assecondato il bisogno impellente di natura fisiologica si è trasformato presto nell’accusa di «atti osceni in luogo pubblico», fattispecie penalmente perseguibile all’epoca dei fatti. Attualmente il fatto non si sostanzia in alcun reato dal momento in cui il legislatore ha depenalizzato tale condotta: il processo al tribunale di Potenza si è appena concluso con una assoluzione piena perchè il fatto non è più previsto come reato. C’è da dire che al trentenne lucano che tranquillamente ha dato sfogo ai suoi bisogni a cielo aperto è andata anche bene, perché se fare pipì per strada non è più reato dal 6 febbraio scorso (data la depenalizzazione dell’art. 726 del codice penale, sugli atti contrari alla pubblica decenza), la sanzione prevista dalla nuova disposizione parte da un minimo di 5 mila euro per arrivare fino a 10 mila. Diversa sorte è toccata, infatti, ad un cittadino di Padova che è stato multato per aver urinato in una piazza e che potrà «pagare» la sanzione con 50 ore di lavori di pubblica utilità per il Comune in cambio del pagamento di 500 euro. A tanto, infatti, ammonta la sanzione «sostitutiva» inflitta a un cittadino rumeno trentaquattrenne sorpreso dai vigili mentre urinava a lato di una piazza della città. Si tratta di una soluzione alternativa, specialmente per quanti si trovano impossibilitati a disporre degli importi necessari per pagare le sanzioni. Circostanza non tenuta in debito conto dai giudicanti lucani che hanno inteso «condonare» in un solo colpo la leggerezza commessa dal giovane di Calvello, con una assoluzione piena e definitiva. Del resto, la Suprema Corte di Cassazione, nel 2013, anno in cui il reato era ancora deprecabile sotto il profilo penale, aveva dato ragione a un impiegato che era stato fermato di notte mentre sfogava i suoi istinti all’aperto perché non aveva trovato bagni pubblici. Anche in quel caso, come a Calvello, i carabinieri non avevano voluto sentire scuse e avevano fatto arrivare la notizia di reato sulla scrivania del pubblico ministero. Era, quindi, intervenuta la Corte di Cassazione a dargli ragione, con una sentenza molto nota: «fare pipì in luogo pubblico, per motivi impellenti, non è reato».
Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno (di Maria Ida Settembrino)