Anche la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 1 anno e 6 mesi nei confronti dell’amministratrice dell’azienda di Tito dove perse la vita, a febbraio 2018, il giovane Antonio Caggianese che aveva appena 27 anni mentre svolgeva il turno di pomeriggio nell’azienda che si occupa della lavorazione dei rifiuti. La Cassazione ha così confermato la sentenza già emessa, il 17 marzo 2022, dal Tribunale di Potenza, con la condanna – pena sospesa – per omicidio colposo e violazione della norma antinfortunistica. Nello stesso processo di primo grado a Potenza, oltre alla condanna, ci furono anche tre assoluzioni: il direttore tecnico dell’azienda, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e l’amministratore della ditta che fornì il macchinario. Per il direttore e amministratore della ditta era arrivata la richiesta di assoluzione, per il responsabile del servizio la richiesta di condanna a due anni. Ma dei quattro a processo, è stata condannata solo l’amministratrice dell’azienda. La sentenza della Corte di Cassazione è stata notificata nella mattinata del 9 febbraio.
In questo caso, la persona condannata ha optato di proporre un “ricorso per saltum”, vale a dire impugnare la sentenza di primo grado proponendo ricorso direttamente in Cassazione e quindi saltando il giudizio di appello. Davanti alla Cassazione, la persona condannata ha impugnato la sentenza per vizi di legittimità. Ma la Cassazione ha comunque confermato l’anno e sei mesi, annullando solo un punto che riguarda la sospensione condizionale della pena subordinata al risarcimento del danno.
Già tempo fa la famiglia di Antonio Caggianese, difesa dall’avvocato Daniele De Angelis, aveva sottolineato il fatto che la vita del proprio caro non vale di certo una condanna. Antonio perse la vita perché rimase incastrato in un macchinario denominato “macchina vagliatrice di rifiuti”. Morì per politrauma da schiacciamento.
“Oggi – dice Giusi Caggianese, sorella di Antonio, a Melandro News – dopo quasi 5 anni dalla scomparsa di mio fratello, possiamo mettere la parola fine al processo penale. Dopo il primo grado di giudizio, l’azienda per la quale lavorava Antonio, ha deciso di fare ricorso in Cassazione per chiedere l’annullamento della sentenza di primo grado in quanto, a detta loro, mio fratello avrebbe tenuto un comportamento abnorme che ne avrebbe quindi causato la morte. La Cassazione ha però confermato quanto deciso in primo grado. Nessun comportamento abnorme, anzi, anche in questa sede, ci si è resi conto del fatto che mio fratello fosse stato mandato in quel posto per pulire, in quanto prassi consolidata visto l’accumulo di detriti. Quel cancello che per legge sarebbe dovuto essere chiuso con almeno un lucchetto, era sempre aperto. Il vaglio non era dotato di alcun sistema di sicurezza. Le pene sono esigue e si continua poi ad esercitare indisturbati. In un paese civile, chi sbaglia, paga…vorrei aggiungere ancora tanto tanto altro ma preferisco fermarmi qui”.
Claudio Buono