POTENZA – Uno dei carabinieri arrivati per i rilievi lo aveva detto anche in aula: su quella curva tra Picerno a Baragiano non si riusciva nemmeno a stare in piedi, tanto era scivolosa per la pioggia appena caduta. E 14 anni dopo a Potenza è arrivata la sentenza per le morti di Antonio Matone e Pasquale Rosario Ferro: condannati il conducente dell’auto che li ha travolti, più i collaudatori e i responsabili dei lavori effettuati tempo prima dalla Provincia. Dovranno scontare 4 anni di reclusione (3 dei quali già indultati) per omicidio e disastro colposo i 10 tecnici imputati per la morte dei due diciottenni di Bella, che la sera del 20 gennaio del 2001, alle 7, stavano andando al cinema a Potenza con altri 3 amici. In cinque dentro la Fiat Tempra di Matone, che appena dopo Baragiano, al quinto chilometro della Sp83, è sbandata girandosi nella corsia opposta. Dove è stata travolta da un’altra Tempra lanciata a 100 all’ora da Domenico Gerardi, 55enne di Napoli, che oggi ne ha compiuti 69. Uccidendo sul colpo i due davanti, e ferendo gli altri. Gerardi è stato condannato per omicidio colposo a 2 anni di reclusione, annullati per effetto dell’indulto, e a 2 anni di sospensione della patente, oltre al risarcimento delle parti offese. Secondo il pm Annagloria Piccininni non avrebbe dovuto superare il «limite prudenziale» di 80 chilometri all’ora «in considerazione della condizioni atmosferiche e temporali al momento sussistenti». Ovvero buio e «manto stradale reso viscido dalla pioggia in atto». Per questo non si sarebbe accorto dell’auto di traverso davanti al lui colpendola in pieno fino a farla ribaltare. Ma il giudice Gerardina Romaniello ha accolto solo in parte la richiesta dell’accusa nei suoi confronti, che era stata di 4 anni di reclusione. Più complessa la ricostruzione delle responsabilità degli altri 10 imputati nel processo, per cui la procura ha contestato anche il disastro colposo, oltre all’omicidio. Da una parte i membri della commissione di collaudio della Sp83: Ugo D’Angelo, Massimo Ruopoli e Giovanni Rabito. Tutti e tre di Roma. Dall’altra i lucani: Rocco Continolo, responsabile dei lavori di «potenziamento, manutenzione e gestione della Sp83» e ingegnere capo della Provincia di Potenza; più 5 «appartenenti alla direzione dei lavori»: Rocco D’Amato, Pasquale Giorgio, Gaetano Schiavone, Raffaele Vita (già direttore dell’Arpab), Serafino Zappacosta e Francesco Fortunato. Per i primi il pm Annagloria Piccininni parla di un collaudo effettuato nonostante nella curva killer ci fossero diversi «motivi di insicurezza», consentendo la circolazione senza particolari limitazioni di velocità nonostante fossero previste anche nel progetto. Quanto invece ai secondi se la prende con una catena di omissioni: dalla «mancata stesura del manto d’usura», che è poi l’asfalto comunemente inteso, all’assenza totale di segnaletica orizzontale e verticale di pericolo e limiti di velocità. Passando per le barriere di sicurezza e una variante ai disegni di partenza, che prevedevano l’inclinazione del manto stradale a salire verso l’esterno. Per garantire un effetto parabolico al passaggio delle auto che le tenesse ancorate al fondo stradale. Mentre una volta aperto il cantiere l’inclinazione è scomparsa e la curva è diventata un piano. Con un problema in più. Perché le fossette per lo scolo dell’acqua piovana erano state pensate per una strada in pendenza e 5 centimetri più alta. E quando si è deciso di non posare il manto d’usura sono rimaste in rilievo: due scalini di 3 centimetri ai bordi della strada a impedire il deflusso normale della pioggia. Ma nessuno sembra essersene accorto. E’ così che il 20 gennaio del 2001 per Antonio Matone e Pasquale Rosario Ferro ci sarebbe stato poco da fare. Non andavano eccessivamente veloce ma a causa della pioggia e del fondo stradale l’auto sarebbe sbandata lo stesso invadendo la corsia su cui stava sopraggiungendo Gerardi. E come loro tanti altri, perché in aula è emerso che dalla data del collaudo di quella curva al chilometro 5,075 della Baragiano Picerno, nel 1997, alla data dell’incidente, 4 anni dopo erano stati già 18 gli incidenti per i quali era stato richiesto l’intervento delle forze dell’ordine. Da sommari ai tanti non decunciati dal momento che in aula alcuni cantonieri della Provincia hanno testimoniato che spessissimo la mattina trovavano le barriere ammaccate e pezzi d’auto abbandonati per terra. Per i collaudatori e i responsabili dei lavori il pm aveva chiesto 5 anni di reclusione. Le motivazioni della decisione verranno depositate entro 90 giorni.
Fonte: articolo di Leo Amato dal “Quotidiano del Sud”